Un contributo del mio amico e collega psicoterapeuta Sergio Scialanca sulla necessità di una nuova prospettiva olistica ed integrata nell’ambito delle pratiche di relazione d’aiuto che integri vecchie conoscenze e le scoperte moderne, nel campo della salute e del ben-essere psico-fisico come dal 2012 facciamo nella nostra Scuola di Counseling Naturopatico Integrativo di Udine.
Nel tentativo di fondare una medicina olistica, che tenga conto dell’Uomo nella sua interezza, abbiamo oggi diverse visioni tendenti all’integrazione. Integrazione di varie forme terapeutiche, mediche e psicologiche da una parte, e dei vari aspetti – corporeo, mentale, spirituale – che, come è ormai riconosciuto, compongono inscindibilmente un Essere Umano. Si affacciano nuovi metodi diagnostici e nuove forme terapeutiche, quali quella vibrazionale, che considerano l’aspetto energetico di un corpo vivente in termini di onde vibratorie e bioelettricità, rivalutando gli aspetti sensoriali come “nutrienti” specifici, accanto al cibo e all’aria.
La sensazione che si ha è quella di una ricerca che ammette, implicitamente, l’inadeguatezza dei metodi di cura finora utilizzati e l’avvenuta crescita evolutiva dell’Uomo. Quello che ieri bastava a guarire, ora non basta più e l’accento si sposta sulla necessità di interventi preventivi e sulla diagnosi precoce. In altre parole, si indaga la possibilità che la malattia si formi, prima che essa possa manifestarsi sul piano fisico.
Si ha la sensazione che i ricercatori ricerchino, prima di tutto, le prove scientifiche – e l’approvazione della scienza ufficiale – in ambiti in cui a guidarli sono di fatto l’intuizione e la conoscenza profonda dei processi biologici scoperti all’interno di se stessi. In altre parole, spesso il ricercatore ha l’interiore certezza di una sua conoscenza sperimentata oserei dire biologicamente, ma non se ne fida finchè una sperimentazione galileiana non la comprova. In questo senso – essendo impossibile sperimentare in termini di “doppio cieco” terapie non farmacologiche – tale prova non potrà mai esserci.
Le problematiche che si pongono sono inerenti alla fiducia che un paziente può donare al suo terapeuta piuttosto che alla Scienza di cui egli è un esponente; ci si sposta dunque sul piano del rapporto terapeutico, cioè del rapporto umano e di quella sottile forma di comunicazione energetica sull’onda della quale si veicola una forza che induce all’autoguarigione. Perché il principio dal quale occorre, secondo noi, essere guidati non è quello di “guarire qualcuno”, ma quello di mettere quel “qualcuno” in grado di guarire se stesso.
Chiaro che l’approccio al paziente deve cambiare sul piano relazionale, ma presuppone anche una capacità di cambiamento continuo, di plasticità, da parte del terapeuta.
Ogni “disturbo” – termine che preferisco a quello di “malattia” – nasce da un ingorgo energetico che non trova possibilità di esprimersi in termini di interazione comunicativa con l’esterno o da una difficoltà ad integrare ciò che è esterno in noi, e ciò va studiato e compreso profondamente, partendo dai segnali disfunzionali manifestati dal corpo, dal cuore e sul piano psicologico.
Sappiamo per esperienza di vita vissuta, oltre che terapeutica, che questo cambiamento prevede una rottura che è difficile e talvolta crea angoscia, paura della perdita della propria identità, poiché l’identità, nella nostra cultura, è rappresentata dall’Io caratteriale e quindi dalle peculiarità riconoscibili socialmente che formano, se viste da un punto di vista diverso, la nostra “coazione a ripetere”.
Il vuoto è dunque il vero strumento terapeutico, l’instaurarsi del “possibile”, la riscoperta della “speranza” e della sperimentazione della possibilità reale di cambiamento. Una persona sofferente dovrà poter sperimentare la possibilità di star bene, dovrà far riconoscere alle proprie cellule la loro possibilità vitale. La vita è cambiamento e la maggior parte dei disturbi nascono dalla paura del cambiamento. Ciò che un terapeuta dovrà gestire è la paura del cambiamento su tutti i piani.
Da un punto di vista del recupero storico di antiche conoscenze, meglio: dall’antico approccio al vivente, in epoche in cui medicina, psicologia, religione, filosofia e arte erano una cosa sola, tre sono i filoni fondanti: l’ayurveda, l’antico Egitto e la cultura paleopersiana così come raccolta e riorganizzata da Zarathustra nella filosofia mazdaniana.
Ognuna di queste culture può contribuire alla conoscenza di aspetti del vivente – uomo nelle fasi di accrescimento evolutivo della sua consapevolezza, e fornisce spunti interessanti per chi si occupa di relazione d’aiuto.
Personalmente accogliamo l’approccio ayurvedico relativo ai sette raggi cosmici e alla costituzione dell’individuo secondo i tre elementi aria, fuoco ed acqua; quello mazdaniano relativo alle tecniche di respirazione collegate a movimenti bio – energetici e alla composizione musicale; quello egizio per la visione globale dell’uomo inserito nella natura immanente e trascendente senza alcuna soluzione di continuità, per l’innocenza dell’esistere e per l’assoluta aderenza armonica alle leggi naturali e al sistema conoscitivo delle funzioni vitali, espresse dal pensiero funzionale analogico che sottende al linguaggio geroglifico.
Oggi tutto questo non va semplicemente integrato in un metodo, ma deve tornare ad essere uno strumento di indagine e di conoscenza.
Se, come nella filosofia di tutti e tre gli antichi sistemi, nulla è separato, lo sviluppo delle qualità umane di un individuo sarà il seme dello sviluppo di un gruppo di individui e così via fino a contagiare l’umanità nel suo complesso. Questo detto in termini nient’affatto mistici, ma in termini di funzionalismo e con riferimento preciso alla teoria dei sistemi viventi come progettata da Prygogine, teoria che definisce il vivente come un sistema lontano dell’equilibrio, ma in continua ricerca di armonia tra elementi in movimento. Non tanto l’equilibrio deve essere ricercato, nella ricerca dello stato di benessere, quanto l’armonia. L’armonia si sviluppa, l’equilibrio no, è un costante riassestamento. L’armonia è una condizione variabile e, quando viene trovata, pone il problema di mantenerla alterandola. Diciamo che è la vita a proporci, meglio: a imporci, le note.
Nei succitati sistemi di conoscenza antichi, il medico era il sacerdote del tempio e il sacerdote non era un curatore di anime come nella nostra accezione, ma una persona addestrata fin dall’infanzia a mettersi in contatto con le forze funzionali della natura tanto da farsene veicolo. La medicina, ci piace almeno così immaginarla, era la capacità di mettere in moto le virtù di autoguarigione che ciascun organismo possiede in grande quantità, ovunque il disturbo fosse situato, a livello del corpo, come della psiche o dello spirito o dell’anima infine. Le tecniche usate erano, crediamo, la riproduzione per così dire intensificata, della funzione naturale che in quel momento non riusciva ad esprimersi nell’individuo malato, al fine di indurre un ri-apprendimento della funzione dimenticata.
Come allora anche oggi, la nostra ricerca in questo settore ci porta a considerare come validi strumenti di lavoro per il cambiamento il respiro, il colore (la luce), il suono e la alimentazione.
Vi sono conoscenze che non possono essere immagazzinate nella mente e non possono essere cristallizzate nella memoria. Sono quelle viventi, mutanti, che si collocano in noi ed agiscono, producendo frutti vitali ed altre conoscenze. Sono quelle che richiedono solo l’azione quotidiana e il lavoro come forma di espressione e non ammettono di essere divulgate perché non appartengono alla sfera della razionalità e della logica. Il loro strumento di propagazione è quell’energia vitale che, lungi dall’essere un sentimento, è l’Amore. Non quello che proviamo, ma quello che ci prova; non quello che produciamo, ma quello di cui siamo il prodotto necessario. Quello che fa della Necessità la propria regola, senza accettare nessuna altra regola e per questo produce Libertà.
Sergio Scialanca