«La caratteristica che definisce i pessimisti è che essi tendo¬no a credere che gli eventi negativi durino molto tempo, distruggano tutto e siano la conseguenza di colpe proprie.»
Il pessimismo, il vittimismo, la tendenza a deprimersi di fronte alle avversità, il lamentarsi invece di reagire sono abitudini molto diffuse e così radicate da diventare vere e proprie strutture caratteriali.
Purtroppo, questi atteggiamenti ricevono spesso sostegno sociale, anzi sono manipolativi al fine di stimolare reazioni salvifiche "da crocerossina" negli altri.
In realtà, di frequente, nascondono da un profondo orgoglio e dalla sensazione di essere speciali. Il pensiero che si crea è:"se non riesco ad essere unico e speciale per i miei meriti e le mie qualità, sarò speciale per la sfortuna e le mancanze che mi affliggono", "nessuno può capire quanto soffro e nessuno soffre quanto me".
Tali atteggiamenti creano profezie che si auto-avverano, e che attirano su di noi più sventure di quante ne attire¬remmo se utilizzassimo altre modalità di pensiero.
Coloro che sono in preda ad una crisi vittimistica non vogliono mai sentir parlare di responsabilità. Essi sono completamente in posizione passiva rispetto alla sua sofferenza, e si alienano così da ogni possibilità di cambiamento e di proattività sugli eventi o sul sistema percettivo/reattivo (contestualizzazione) in rela¬zione a ciò che c'è o a ciò che sente.
Spesso ogni tentativo di responsabilizzarli sortisce l'effetto di acuire la loro percezione vittimistica di non essere capiti e che nessuno possa aiutarli. Per questo si parla sovente in questi casi di tendenza masochista.
Il pessimismo si basa spesso su una scarsa considerazione di sé e del proprio potere personale e delle proprie risorse (impotenza appresa), e su una tendenza all' autocolpevolizzazione.
L'ipotesi è che il pessimista non abbia acquisito le conoscenze adeguate per utilizzare gli strumenti di adattamento necessari per fronteggiare le difficoltà. Le cose della vita, non sono in assoluto buone o cattive, come sanno bene tutti coloro che applicano le tecniche di integrazione somato-psichica.
E' molto importante allora riuscire a rinunciare alle proprie visioni stereotipate della realtà, rinunciando con forza e coraggio alla propria adesione al ruolo di vittima, ed ai suoi subdoli privilegi, (commiserazione, pietismo, soccorso, autocommiserazione, intensità di vissuto emotivo, possibilità di ricattare o punire, de-responsabìlizzazìone) ed alla (apparentemente ragionevole) costruzione mentale attraverso la quale si giustifica il proprio dolore. Felicità condizionala, la definirei.
E' umano e frequente soffrire per degli attaccamenti a qualcuno o a qualcosa di mondano, ai quali avevamo delegato una parte o tutta la nostra felicità. La tristezza e il pianto sono la manifestazione energetica e liberatoria di queste reazioni al nostro dolore.
A volte permettere di svuotare e scaricare il serbatoio emotivo, senza censure o repressioni è molto terapeutico, perché il dolore limita le funzioni corticali del ragionamento e del cambiamento di contesto. Inoltre il dolore trattenuto crea malinconie, depressione e malattie. Una volta svuotato il carico di sofferenza emotiva, è però importante ristrutturare l'esperienza con amore e saggezza, disponibilità e senso di responsabilità.
Bisogna essere disponibili a vedere il dono, l'insegnamento che c'è in ogni mancanza, e assumersi la responsabilità nello scegliere i contesti interpretativi, nel preferire la gratitudine per ciò che c'era e che ci è stato donato, piuttosto che l'eccessivo arrovellarsi su qualcosa che non c'è più.
"Pensare a ciò che c'era, impedisce di vedere ciò che c'è".
Vi lascio con questa citazione che dovrebbe servire come sprono per risalire dall’abisso.
Una cosa che emerge dai miti, è che in fondo all'abisso si ode la voce della salvezza,
II momento nero è quello in cui
sì forma il vero messaggio dì trasformazione,
Nell 'attimo più buio, giunge la luce.
Joseph Campbell